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BIENNALE DI VENEZIA 2007
di Sandro Ricaldone



Torna puntuale, per la cinquantaduesima volta, la Vecchia Signora delle esposizioni internazionali, il prototipo delle biennali d’arte ormai diffuse da un lato all’altro del pianeta, da Sydney a Istambul, da Yokohama a Dakar. L’edizione 2007 aprirà al pubblico domenica 10 giugno senza risentire, in apparenza, del taglio inferto al bilancio dell’Ente dal ministro Padoa Schioppa né del consueto fardello di polemiche, concernenti in particolare il numero, che si dice troppo ristretto, di artisti italiani invitati e la presenza di troppi artisti d’età in una rassegna che si vuole votata all’arte del presente.
Sotto la guida di Robert Storr, già Senior Curator del Moma di New York e attuale preside della Scuola d’Arte dell’Università di Yale, la Biennale invade la città lagunare affiancando una miriade di padiglioni decentrati e di eventi collaterali alla mostra principale, allestita nella sede tradizionale dei Giardini di Castello ed alle Corderie dell’Arsenale.
Per quel che è possibile arguire dai nomi degli artisti invitati, l’esposizione ordinata dal critico statunitense – che mostra di puntare più su uno standard elevato che su una ricognizione del panorama attuale - non riserverà troppe sorprese. Sin dal titolo, poetico quanto vago, “Pensare con i sensi / Sentire con la mente”, l’impianto della rassegna sembra infatti richiamarsi più ad una concezione generale dell’arte che alle sue declinazioni ultime. Analogamente, fra le presenze caratterizzanti predominano figure appartenenti alle generazioni che hanno segnato l’arte fra gli anni ’70 e gli anni ’90: da Ellsworth Kelly, maestro dell’astrattismo americano, a Sol LeWitt, capofila del Minimal Art; dal concettuale Lawrence Weiner a Giovanni Anselmo, esponente dell’Arte Povera, sino ad artisti più giovani ma già presenti in edizioni anteriori della Biennale come l’americana Jenny Holzer ed il londinese Steve McQueen.
D’altronde il tratto convenzionale di queste scelte non va fatto risalire unicamente alle predilezioni del curatore. Si deve infatti riconoscere che nell’orizzonte odierno non emergono rivolgimenti paragonabili all’irruzione della Pop Art nell’edizione del 1964 od alla comparsa della Transavanguardia nel 1980. La scena internazionale si palesa frammentata e più che mai soggetta ad influenze di matrice economica o addirittura speculativa. Le nuove tecnologie video ed i linguaggi intermediali, come l’installazione, sono divenuti ormai degli standard, e come tali hanno perduto il fascino dell’insolito. Anche l’esplorazione di contesti culturali lontani dalla civiltà occidentale non è più un fattore inedito, sicché il premio alla carriera attribuito al fotografo Malick Sidibé e la presenza di un nuovo padiglione dedicato all’Africa, che ospita la mostra “Check List Luanda” (dove peraltro non mancano artisti di altri continenti come Barcelò e Basquiat), dopo rassegne come “Partage d’exotismes” (Biennale di Lione 2000) e “Africa Remix” (Centre Pompidou 2005), non può considerarsi una rivelazione.
Alle scelte, esemplari quanto consolidate, della mostra principale corrispondono nel tono le principali “partecipazioni nazionali”. Il padiglione tedesco ospita Isa Genzken, scultrice che – come afferma il commissario Nicolaus Schafhausen – “al tempo stesso pone in questione ed afferma la concezione tradizionale di questo genere artistico”. La Francia mette in campo Sophie Calle, indagatrice della sfera intima delle persone, con una sorta di pièce in cui un centinaio di donne di diversa estrazione interpretano una lettera di rottura da lei ricevuta. A Tracey Emin, l’artista che suscitò scandalo esponendo il proprio letto sfatto e macchiato, è stato affidato il compito di rappresentare la Gran Bretagna. Felix Gonzales-Torres, cubano naturalizzato, scomparso nel 1995, occupa il padiglione statunitense con le sue opere più note fra cui il celebre mucchio di caramelle di liquirizia intitolato “Public Opinion”.
Nel rinato Padiglione Italia, affidato alle cure di Ida Gianelli, Giuseppe Penone, membro – come il già ricordato Anselmo – del gruppo dell’Arte Povera, con “Sculture di linfa”, un’opera in cui il legno, suo materiale d’elezione, viene messo a raffronto con le venature del marmo. Insieme a lui espone il giovane Francesco Vezzoli, beniamino della critica, con un video (“Democracy”) che mette in scena un finto spot elettorale, interpretato da Sharon Stone e dal filosofo Bernard-Henry Levy.
In totale sono ben settantasette i paesi che offrono il loro contributo alla caleidosopica visione della kermesse veneziana, che si arricchisce di manifestazioni - collaterali e non - di prestigio fra le quali si annoverano le mostre di Richard Hamilton alla Fondazione Bevilacqua La Masa, di Matthew Barney e Joseph Beuys nella sede della Collezione Peggy Guggenheim, la “Sequence 1” della collezione Pinault a Palazzo Grassi, l’esposizione di Thomas Demand organizzata da Prada alla Fondazione Cini e, ancora, Ilya ed Emilia Kabakov alla Fondazione Querini Stampalia con il progetto “The Ship of Tolerance”.
Ed è forse proprio questa inusitata concentrazione d’iniziative, più della loro (vera o presunta) eccezionalità, a costituire l’evento, a realizzare il prodigio di una cultura di nicchia che perviene a stabilire una supremazia apparentemente incondizionata, occupando concretamente il territorio e calamitando l’attenzione mediatica: dimostrazione – si direbbe - inconfutabile della validità dell’assunto hegeliano secondo cui, raggiunto un certo ordine di grandezza, la quantità si trasforma in qualità.




 

Lettera sulle arti a Genova - a cura di Sandro Ricaldone      Home      Top      Contact