Fai click per ingrandire

5 + 1
"Nuovo campus universitario nell'ex caserma Bligny", Savona, 1997-2002





Fai click per ingrandire

5 + 1
"Ampliamento del palazzo di giustizia", Siena , concorso internazionale ad inviti , 2000.





Fai click per ingrandire

Saverio Fera
"Concorso per la Capitaneria di Porto di Ravenna", 2001





Fai click per ingrandire

Saverio Fera
"Concorso per un centro di documentazione su Nietzsche", 2001







Freefind - Search this site

  Click Enter
Google - Search the Web

Click Enter








Link:
GIOVANI ARCHITETTI
A GENOVA/2

 


GIOVANI ARCHITETTI A GENOVA/1
di Piero Millefiore

   

 

       Dalla ricostruzione del teatro lirico, alla ristrutturazione dello stadio Luigi Ferraris ad opera di Vittorio Gregotti, al progetto per l'Expo del '92, sino ai più recenti e frettolosi lavori di preparazione al vertice G8, di cui la città è stata la sede nel 2001, Genova si è trovata incredibilmente - in questi ultimi due decenni - a confrontarsi con le molteplici forme e i molteplici linguaggi dell’architettura contemporanea.
       In quest'ultima occasione la città è stata sconvolta - anche prima del suo sanguinoso epilogo - da una serie di piccoli e grandi progetti che, accanto ad alcuni utili e necessari interventi di arredo urbano (anche se forse un pò troppo debitori della più o meno recente tradizione Barcellonese), hanno investito - tra gli altri - anche il luogo più rappresentativo della città stessa, Piazza De Ferrari, stravolto e violentato da una risistemazione - se tale si può chiamare - tanto inutile e sbagliata nelle scelte progettuali, quanto anacronistica e irriguardosa per la storia della città e per la scelta dei materiali utilizzati.
       Peraltro la dichiarata necessità da parte degli organizzatori del vertice di creare per ragioni di “sicurezza” la cosiddetta zona rossa (un'isola deserta e intoccabile - una sorta di cittadella medioevale - dentro la città stessa), si è di fatto materialmente concretizzata con quello che è rimasto nell'immaginario collettivo come il reale e più forte segno "architettonico" del G8: i blocchi di cemento armato, i container appilati e le barriere in rete metallica che hanno separato, stravolto e mutato drasticamente il senso di molti spazi urbani e impedito la loro quotidiana fruizione.
       Di fatto molti di questi interventi - dalla risistemazione dello stadio alla ristrutturazione del teatro, dalla esotica sistemazione pedonale dell'Expò ai lavori per il G8 - hanno avuto e avranno incidenza sulla maturazione culturale e sul linguaggio dei giovani architetti che si sono formati o si stanno formando nelle aule e nei giardini della nuova sede della facoltà di architettura di Genova.
       In realtà il progetto di Aldo Rossi e Ignazio Gardella per il Carlo Felice fu allora anche l’occasione per un dibattito di portata nazionale sul post-moderno: in una memorabile serata all’ex teatro Margherita si scontrarono Bruno Zevi, in difesa del “moderno”, da un lato, e Paolo Portoghesi, reduce dalla Strada Nuovissima alla Biennale di Venezia e portavoce del post-moderno, dall'altro. Questo dibattito doveva comunque influenzare le scelte di tendenza di molti degli studenti della facoltà genovese, che - spesso in contrapposizione con le linee culturali di molti dei loro docenti di progettazione - si misurarono rischiosamente con il nuovo linguaggio.
       D'altra parte la stessa facoltà di architettura, progettata da Ignazio Gardella, veniva in quegli anni ricollocata nei nuovi edifici realizzati sul sito di san Donato e negli antichi conventi della collina di San Silvestro, grazie soprattutto alla volontà dell'allora preside Edoardo Benvenuto, il cui fondamentale apporto alla crescita scientifica e culturale della facoltà doveva concretizzarsi con la presenza nel corpo docente di architetti di fama internazionale come Giancarlo de Carlo.
       La presenza continua peraltro di docenti eredi della tradizione radicale e dotati di grande carisma come Enrico D. Bona, (già caporedattore di Casabella) e, successivamente, di Brunetto De Battè (impegnato spesso in esperienze didattiche al confine tra arte e architettura), o più recentemente di giovani architetti assai attivi nel dibattito nazionale e anche internazionale come Stefano Boeri, ha fatto sì che - in questi ultimi anni - si formasse anche a Genova una generazione di studenti (e ora di architetti) attenta non solo allo specifico del linguaggio architettonico, ma anche, e soprattutto, alle esperienze di confine con le altre arti e pronta a misurarsi con gli analoghi gruppi "storici", come i Cliostraat a Torino o gli Stalker a Roma.
       Inseguendo una certa forma di rigore progettuale, altri docenti si ponevano su un versante culturalmente opposto; docenti in sintonia con una - mai del tutto abbandonata, in verità - linea "umanistica" e tradizione "classica" dell'architettura. Tra questi ricordiamo Cesare Fera (al quale si debbono alcuni dei più importanti interventi di restauro nella città; un’esempio: quello del complesso domenicano di S. Maria di Castello) e, più recentemente, Aldo De Poli, un allievo di Aldo Rossi, che tuttavia non si sottrae al dibattito culturale con le altre tendenze, ed anzi, con grande passione incoraggia il confronto - non solo all'interno della disciplina stessa dell'architettura - ma anche con le esperienze più recenti dell'arte contemporanea.

       Debitori, in qualche modo, degli insegnamenti di Bona e De Carlo e dell’esperienza professionale maturata presso l’atelier/studio di Renzo Piano, i “5+1 associati” sono un gruppo nato nel 1994 e composto - per l’appunto - da sei giovani architetti impegnati sul terreno della professione di qualità: il gruppo ha già ricevuto riconoscimenti anche in campo internazionale e si presenta ormai con un curriculum vitae indubbiamente invidiabile.
       Il nome stesso propone una nuova filosofia di rapporto con il fare architettura: i 5+1 infatti, tengono a sottolineare la loro attitudine al confronto e alla collaborazione (+1) con altri architetti o professionisti, ma anche con chi opera in altre discipline. Questo loro desiderio di costituire “gruppi di lavoro allargati” li ha portati a coinvolgere architetti già professionalmente affermati come Chaix & Morel (concorso per il palazzo di Giustizia di Siena e per i nuovi insediamenti universitari di Bologna) o Rudy Ricciotti (ponte dei Congressi a Roma e il Nuovo Collège 600 a Montpellier). In questi e negli altri progetti hanno messo in atto un atteggiamento culturale e professionale “pragmatico” dove nulla è scontato e dove il linguaggio non viene assunto come proposizione aprioristica ma in relazione ad un rapporto evoluto tra funzione e forma conseguente. Il tentativo è quello di dare una risposta progettualmente “alta” ai programmi imposti dalla committenza e in stretta relazione alle risorse economiche a disposizione.
       E’ perciò che i “5+1” tengono a sottolineare la loro adesione ad una sorta di “low tecnolgy”, in contrapposizione ad una “high tech” monumentale e inutilmente dispendiosa. La conoscenza continuamente aggiornata dei prodotti “standard” per l’edilizia sta alla base di una architettura che mutua un uso di materiali raffinati e pregiati (ad es. il legno per la pavimentazione esterna del nuovo campus universitario nell’ex caserma Bligny a Savona) con l’uso quasi “sprezzante” di prodotti di serie dell’industria collocati però con estrema attenzione all’interno di un precisa e accurata idea progettuale (si vedano i serramenti di serie in alluminio e gli elementi in fibrocemento nei “bris-soleil”, sempre nel nuovo campus universitario dell’ex caserma Bligny a Savona). Rapidità nella risposta, sperimentalismo, efficacia e coerenza ai programmi sono le caratteristice fondamentali di questo gruppo di giovani architetti.

       Su un versante alternativo si pongono invece altri, eredi della linea "umanistica" dell'architettura.    Tra questi Francesco Saverio Fera che - insieme al fratello Stefano - dà seguito alla tradizione inaugurata dal padre Cesare. Saverio Fera termina i suoi studi a Milano avendo Giorgio Grassi, Antonio Monestiroli e Perluigi Nicolin come docenti. Allievo dichiarato di Aldo Rossi, si forma nel suo studio e collabora oggi, nella facoltà di architettura di Genova, con Aldo De Poli. La sua sfida è ora quella di differenziarsi dal maestro pur continuando a seguirne gli insegnamenti e le fondamentali indicazioni: “Con Aldo Rossi - ricorda - non si parlava mai direttamente di architettura; i suoi racconti, apparentemente estranei, servivano però a chiarire gli aspetti più importanti della città fatta di uomini, con le loro peculiarità ed esigenze concrete”.
       Fera individua nella degenerazione degli ideali del Movimento Moderno l'origine degli errori e degli “orrori” dell'architettura contemporanea, a cui non è estraneo anche un conformismo nei confronti delle tendenze “alla moda” e un “accademismo delle avanguardie”. Tra queste sono da indicare in primo luogo certe architetture, che ormai appaiono nè più nè meno che una “esibizione di muscoli” fine a sè stessa, là dove ormai la tecnologia più avanzata propone quasi la sparizione dell’oggetto.
       Nel progetto recentemente presentato ad un concorso per la nuova sede dell’autorità portuale di Ravenna (progetto redatto insieme ad Aldo De Poli) si fa esplicito riferimento all’architettura realizzata in Italia tra le due guerre - principalmente a Giuseppe Terragni ed alla sua Casa del Fascio di Como -. E’ questa l’architettura - secondo Fera - che è riuscita a proporre una lettura “a più livelli”, da quello più semplice dell’immagine e del simbolo diretto a quello più complesso delle regole proporzionali e sintattiche. Così come un tempo riuscivano a fare i grandi maestri - Giotto per tutti - senza cadere nella retorica della “civiltà dello spettacolo”, che oggi accomuna molte delle esperienze dell’architettura “progettata più per essere pubblicata dalle riviste che per reali esigenze e consapevolezze linguistiche”.
       Saverio Fera fa invece risalire la sua esperienza architettonica ad Adolf Loos (oggetto della sua tesi di dottorato, oltre che di alcuni fondamentali studi dello stesso Aldo Rossi): se non si possono più proporre gli “stilemi formali” dell’architettura classica, si “devono” invece usare le regole che derivano dalla tradizione architettonica; citando Auguste Perret: “colui che senza tradire nè i materiali, nè i programmi moderni, avrà prodotto un’opera che sembrerà essere sempre esistita - chi, in una parola, sarà stato banale - io dico che potrà ritenersi soddisfatto”.
 
 

 

Lettera sulle arti a Genova - a cura di Sandro Ricaldone      Home      Top      Contact