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MAURO GHIGLIONE: STA UNA FUGA FRA NOI
di Sandro Ricaldone

 

I personaggi che si muovono nell’isola, ritenuta deserta, che forma lo scenario de “L’invenzione di Morel”, il celebre romanzo pubblicato nel 1940 dallo scrittore argentino Adolfo Bioy Casares sono figure proiettate da un macchinario cinematografico, simile alle odierne apparecchiature per la simulazione virtuale della realtà, che ne ha consumato la vita per riprodurla senza fine.
La forma narrativa e la trama, giudicata perfetta da Jorge Luis Borges, imperniata sull’innamoramento del protagonista, un naufrago approdato sull’isola per sfuggire alla giustizia, per il fantasma di Faustine, donna bellissima e inaccessibile, sono pretesto per un’analisi sottile del rapporto fra immagine e realtà, fra il carattere temporale e mutevole dell’esistenza e il tratto definitivo, “immortale”, della parvenza registrata.
Trasposta magistralmente in film da Emidio Greco nel 1974, con l’interpretazione di Giulio Brogi e di Anna Karina, la vicenda ha attirato l’attenzione di Mauro Ghiglione, uno degli artisti più sensibili e profondi delle ultime generazioni, che ne ha tratto spunto per una sequenza di opere - esposte all’Unimedia Modern in una mostra di cui oggi alle 18,30, nella sede della galleria in Piazza Invrea 5B, viene presentato il catalogo – in cui scandaglia, come sottolinea la curatrice, Viana Conti, il tema de “l’immagine fra rappresentazione e ripresentazione”.
Il volto di Brogi, nel suo sembiante attuale, accostato a quello del Naufrago di trent’anni or sono e la perfezione immutabile del portamento di Anna Karina, pongono in atto un corto circuito fra il presente e il passato, fra ciò che si colloca fuori dal tempo e quel che nel tempo si esaurisce.
Ghiglione va alla ricerca dell’immagine dentro l’immagine, così come il padre della linguistica contemporanea, Ferdinand De Saussure, ricercava negli anagrammi (che l’artista utilizza, in questa occasione, ricavandone imprevedibili deviazioni di senso) “le parole sotto le parole”.
La grazia e la passione dei volti celano i teschi delle raffigurazioni secentesche della “vanitas”, la fotografia è specchio che riflette un’immagine solo in apparenza inalterabile, l’oggetto inserito nell’opera si trasforma nel relitto di un naufragio inavvertito.
Una stratificazione molteplice di significati in virtù della quale l’autore approda a trasformare, come recita uno dei suoi anagrammi, ciò che è “solo un’immagine” in un “enigma luminoso”.




 

Lettera sulle arti a Genova - a cura di Sandro Ricaldone      Home      Top      Contact