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CESARE VIEL: MI GIOCO SINO IN FONDO
di Sandro Ricaldone

 

“Leggere, scrivere, disegnare, leggere, scrivere”. Questa frase, che campeggiava nel 2004 su un grande telo sospeso sulla facciata di Palazzo Bricherasio, a Torino, in un intervento site specific, dal titolo “Tu che m’hai disegnato”, definisce - nel suo dettato lapidario e iterativo - l’orizzonte entro cui si colloca il lavoro di Cesare Viel, del quale il Museo di Villa Croce propone, sino a settembre, una rassegna antologica che include performances e installazioni realizzate dal 1990 ad oggi.
Attorno alla scrittura, nella sua parvenza fisica che è già disegno, nella sua disposizione comunicativa che si realizza attraverso la lettura, l’artista ha infatti strutturato, sin dagli esordi, il proprio modus operandi, in origine teso ad una investigazione sul linguaggio come tramite e, insieme, come limite alla conoscenza. Ma dopo aver messo a fuoco, in lavori come “Noi gestiamo il disordine quotidiano del pensiero” (1990), il cuore del problema, facendo scaturire dai “nodi dei testi” la “domanda impossibile” di una compiuta trascrivibilità del pensiero, Viel in prosieguo è venuto sviluppando una strategia complessa e pervasiva, in cui il linguaggio è, per così dire, messo in scena, sollecitando non più soltanto il registro concettuale, ma le dimensioni del corpo e dell’emotività. Il processo che, muovendo dal vissuto o dall’immaginazione, approda a condensarsi nella parola viene così invertito: la parola, nella performance, si fa azione, dà corpo e sostanza ad esperienze di dialogo, di identificazione, di ribaltamento; coinvolge autore e pubblico in una dinamica di trasformazione sommessa ma intensa.
Così il lavoro più recente, un tappeto su cui figura la scritta “Mi gioco fino in fondo / ma il fondo non ha fine”, che apre il percorso della mostra ed è stato anche il set della performance inaugurale, assume una valenza esemplare nell’indicare una prospettiva di evoluzione che l’arte è chiamata a perseguire indefinitamente.
Nelle sale al piano nobile del Museo sono ospitate le installazioni che costituivano la scena delle performances tenute da Cesare Viel nell’ultimo decennio.
Ad aprire la sequenza l’allestimento di “Operazione bufera” (Bolzano, KleinKunstTheater, 2003), in cui la drammatica vicenda del sequestro perpetrato da un commando di donne-kamikaze cecene al teatro Dubrovka di Mosca, concluso con l’assalto delle truppe speciali russe, viene evocata attraverso la lettura di frammenti narrativi che riportano le sensazioni dei diversi soggetti coinvolti, mentre l’autore (sostituito nella replica proposta durante il vernissage da Francesco Cardarelli) rimane disteso immobile, con la bocca spalancata, in una fila di poltrone rosse nella posa della fotografia pubblicata su gran parte dei quotidiani.
Seguono “Aladino è stato catturato” (Pescara, Lungofiume Sud, 2000; reintepretato da Mauro Panichella) ironico apologo sull’influenza frustrante delle convenzioni e la via d’uscita rappresentata dall’azzardo e “To the Lighthouse. Cesare Viel as Virginia Woolf” (Rimini, Teatro degli Atti, 2004) nel quale l’artista, travestito e truccato come la scrittrice inglese, che in “Orlando” aveva sviluppato il tema dell’androginia, ascolta seduto in un salottino anni ’30, la lettura di un capitolo del romanzo richiamato nel titolo dell’azione.
Nell’ambiente successivo si rende protagonista la scrittura con due lavori dedicati a figure femminili, cui fa da contraltare la stele di “Nel nome del padre” (realizzata con Luca Vitone e presentata a Milano da Emi Fontana nel 2001) in cui sono elencati alla rinfusa i nomi di protagonisti della scienza e dell’arte delineando una beffarda ipotesi di trasmissione della cultura per linea maschile. “Thank You Emily” (Milano, Assab One, 2002) è una sequenza di fogli dove immagini del G8 di Genova e delle Twin Towers sono raffrontati con la portata profetica dei versi di Emily Dickinson mentre “Progetto Bachmann” riporta la traccia della performance realizzata - sulla base di un testo di Grazia Livi - nel 2006, sotto gli auspici della Fondazione Baruchello, in un appartamento privato in Via Giulia a Roma, prossimo all’abitazione della scrittrice tedesca, tragicamente scomparsa nel 1973.
Più oltre un parallelepipedo di balle di fieno costituisce il piedistallo sul quale aveva luogo, nel 1999 (alla fiera torinese di Artissima) la performance “Lost in meditation”, ripetuta ieri da Andrea Bertocci, una divagazione sui temi dell’infanzia, della memoria e della natura sul sottofondo dell’omonima canzone di Ella Fitzgerald.
In mansarda videoproiezioni, le situazioni disorientanti di “Provare” (1993), i disegni di “Diario contemporaneo” (2004) dove Viel “riscrive” fotografie estratte da giornali e riviste, completano la mostra.
Che trova il suo naturale compimento nella personale allestita, in contemporanea, dalla Galleria Pinksummer, dove Viel torna sul tema del linguaggio, rappresentato questa volta come “discreta presenza silenziosa” che sa comunicare attraverso tracce minime, come un fantasma che ci abita, ospite grato e, al tempo stesso, periglioso.




 

Lettera sulle arti a Genova - a cura di Sandro Ricaldone      Home      Top      Contact