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novembre 2012 - novembre 2013



Mostre e Recensioni



-  Beppe Dellepiane:
    Ombra e sogno
    sono il peso della luce


-  Gianni Brunetti:
    Figure - Sequenze


-  Giuliano Galletta
    Non voglio essere
    me stesso


-  Marina Carboni:
    Paesaggi di Liguria


-  Lorenzo Penco:
    Un catalogo di cose perdute
    per un mondo possibile


-  Il Deposito 1963-2013
    L'avanguardia in riva al mare


-   Il lavoro dell'artista:
    Un percorso genovese


-   Michele Allegretti:
    Nebula


-   La visione fluttuante #2

-   Espoarte: intervista su
    La visione fluttuante #2


-  Gruppo 63
    Tessere per un mosaico


-  Rileggere il Marcatré

-  Piero Simondo:
    i monotipi 1954-1958



Ricordi



-  Gian Lupo Osti

-  Omaggio ad Aurelio Caminati

-  Franco Sborgi



 

GIULIANO GALLETTA


NON VOGLIO ESSERE ME STESSO
(Il Canneto Editore - ottobre 2012)



“Io è un altro” scriveva Arthur Rimbaud all’amico Paul Demeny, in una lettera del maggio 1871: una frase tanto sobria quanto inafferrabile, in cui il poeta francese poneva precocemente in questione l’identità dell’autore e segnalava, più in generale, l’insorgere di quella “crisi del soggetto” che avrebbe segnato profondamente il secolo successivo.
Poco meno di un secolo più tardi Jean-Paul Sartre, volgendo il termine al plurale, si spingerà ad affermare “io sono altri”.
Su questa linea s’incentra l’attività artistica, ormai trentennale, di Giuliano Galletta. E’ lui stesso a sottolinearlo nel testo introduttivo del volume “Non voglio essere me stesso”, pubblicato dall’editrice genovese Il Canneto in occasione della omonima mostra allestita a Biella nello spazio della Galleria Silvy Bassanese, a cura di Viana Conti.
“Nel bricolage dell’esistere – scrive – non c’è Io che non sia Altro, anzi Altri. Ma l’Altro non è solo persona ma anche natura, animali, cose …”.
Nel suo tentativo di “costruire un Io con gli scarti di tanti altri Io, un po’ come il vestito di Arlecchino” l’autore si è trovato a misurarsi con la lezione delle avanguardie novecentesche, con il loro concentrico attacco alla componente estetica dell’opera non meno che con il tentativo di connettere il lavoro artistico all’ambito della vita quotidiana.
Ma l’uso spiazzante del collage, la dialettica fra parola e immagine, la pratica insistita della citazione che ne costituiscono il retaggio, si sono collocate da subito entro cornici insolite. Con “Tous Jours”, singolare libro a fogli mobili apparso nel 1978, Galletta ha proposto una sorta di diario anonimo, composto di frammenti estratti dal flusso d’immagini banali che accompagna lo scorrere del tempo, per passare poi alla costruzione di una sorta di anti-biografia in cui le memorie personali e l’invenzione narrativa, sempre condotta attraverso l’immagine, si riverberano l’una nell’altra in un gioco di rimandi dove il folgorante aforisma contenuto nei Minima Moralia di Adorno (“Non si dà vita vera nella falsa”) è nello stesso tempo convalidato e smentito.
Negli ultimi anni l’attenzione dell’artista, complice anche il suo primo o montalianamente “secondo mestiere” di giornalista, è venuta a concentrarsi sulla condizione caotica che l’informazione visiva e scritta, gutemberghiana e digitale, ha raggiunto nella contemporaneità, ricercando nei saggi esemplari di un ipotetico “Archivio del Caos” una nuova dimensione narrativa in grado, se non di assumerne, di rispecchiarne il carattere estremo.
Nel volume di cui ragioniamo - che verrà presentato lunedì 26 novembre alle 17,45 a Palazzo Ducale, nella sala del Munizioniere, con l’intervento di Viana Conti, Nicolò De Mari e Simone Regazzoni – Giuliano Galletta opera una sintesi fra i diversi aspetti del suo lavoro associando le negazioni identitarie dei “Resti” (1980), dove il volto dell’autore è cancellato, al falso-vero “Ritratto dell’artista da giovane” (1945/1995), in realtà un’immagine d’epoca del padre in atteggiamento da boxeur; trascorrendo dall’aforisma di “Frase fatta” (“in linea di massima l’essenziale è mostruoso”, 2066) alla grande mucca rossa in vetroresina (2010) eretta ad emblema del progettato “Museo del Caos”. In queste pagine, come osserva Viana Conti nella postfazione, l’autore, “assiduo frequentatore del paradosso e dell’ossimoro, racconta una storia per svelare la storia del racconto, per smontarne e rimontarne le attese da parte del lettore/spettatore, in un’estenuante e corroborante danza del reale”.

Sandro Ricaldone