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CLAUDIO COSTA E DAVIDE MANSUETO RAGGIO


PERCORSI INCROCIATI
(Calvari, Palazzo Cuneo - agosto/settembre 2014)



Nell’arte come nella vita il caso è considerato, per lo più, come un accidente che interviene a stravolgere, rispettivamente il progetto di un’opera o il corso degli eventi. Talvolta, però, cela in sé un tratto di necessità ineludibile, anche se in origine inattesa e perciò riconoscibile soltanto a posteriori. Un simile intreccio di imprevisto e predestinazione può ravvisarsi nell’incontro fra Claudio Costa e Davide Mansueto Raggio all’interno della struttura psichiatrica di Genova Quarto. Costa, artista già riconosciuto a livello internazionale, grazie alla partecipazione a mostre come Spurensicherung: Archäologie und Erinnerung alla Kunstverein di Amburgo (1974) e alla sesta edizione di Documenta a Kassel (1977), approda infatti a Quarto - dove Raggio è ricoverato da trent’anni - nel 1985, per via di una circostanza fortuita: l’assegnazione, unitamente ad altri artisti, nell’ambito del Centro Culturale del Levante, di un locale espositivo, significativamente denominato Spazio Paradigma, che diverrà in seguito il suo studio. Nel suo itinerario in regress, dal presente alle origini dell’umano, Costa si era accostato alla cultura contadina, ai suoi strumenti ed ai suoi rituali, realizzando con Aurelio Caminati il Museo di Antropologia attiva di Monteghirfo e una performance dedicata alla Sperlengueia, una pratica apotropaica dell’entroterra ligure. Non vi poteva essere, quindi, persona più indicata – per il costante impulso a cogliere la componente metaforica del dato materiale – ad entrare in contatto con il lavoro di Davide Mansueto Raggio, con il suo retroterra antropologico, radicato nella Val Fontanabuona - ben nota all’artista, cresciuto a Chiavari – e l’universo fantastico che gli è sotteso.
Ma, al tempo stesso, è Raggio a comprendere Costa, a scoprire nel suo lavoro l’azione profonda di una “natura dei saperi” che agisce al di là delle percezioni e delle intenzioni individuali, svelando forme già esistenti “nell’intimità primordiale dell’essere”, che debbono essere portate alla luce. A leggere nelle mutazioni degli oggetti, dei rami, delle foglie trasformate in Macchine alchemiche, nelle ruggini che si fanno case, nel profilo d’insetto colto in una staccionata erosa dal tempo, l’energia latente di una materia solo in apparenza inerte, che anela ad animarsi. A vedere, come lui, che “un falcetto è come un drago con gli occhi azzurri”, che “una zappa nella neve è come un pesce pietrificato in una falda morenica” (1).
Così Raggio ricava dalla polvere di mattone e dall’argilla (che chiama sassomatto) i colori con cui traccia figure deformate, facendo tesoro delle imperfezioni o delle macchie del supporto; così utilizza il ciarpame di cartone come una pelle da tatuare e incidere per farvi sbocciare silhouettes antropomorfe, volti perplessi o corrucciati.
Le sue Furie, stecchiti personaggi di legno, dello stesso legno di cui, dice Costa, Raggio è fatto, “quel legno dell’albero senza nome, dai grossi piedi e dai rami nodosi, che porta incisi sulla pelle i segni di una vita sottoesposta in penombra” (2), sono la personalizzazione dell’anima del bosco, danzante e paurosa: del bosco dei contadini per i quali il tronco è trave, il ramo è riparo, la castagna nutrimento, la fascina calore; del bosco del mito e della fiaba abitato da Pan e dalle ninfe, popolato da orchi ed elfi; del bosco degli incubi, “selva oscura” di angosce e smarrimenti.
Snodate negli arti, le gambe piegate e come risolute a slanciarsi, le braccia stese, pronte a ghermire, le teste impennacchiate da foglie di palma o ricavate da radici “rovesciate verso il cielo a guisa di scarmigliati capelli” (3), queste figure, aggressive e terrificate insieme, riflettono antiche inquietudini della vita minacciata, le streghe contro cui combattevano i benandanti, le basure che dopo il tramonto insidiavano i bambini.
Apparente contraltare giocoso delle Furie, Pinocchio – altro personaggio ricorrente nell’immaginario e nell’opera di Raggio – dal naso appuntito ed esageratamente bislungo e dal corpo assemblato con rami rusticamente scortecciati, include, sotto il travestimento fantastico, un intreccio di significati che riveste la predilezione di Raggio, certamente propiziata dai materiali disponibili, di uno spessore più consistente. Non solo, infatti, dall’origine il burattino collodiano si pone come tipo metamorfico per eccellenza - nato da un pezzo di legno da caminetto dotato di parola, assume in seguito sembianze animali e in ultimo di fanciullo - ma, in questo suo tragitto fra l’inanimato e l’umano, si rivela emblema di Morte (secondo l’interpretazione di un semiologo come Emilio Garroni il tema profondo del racconto, al di là della fiabesca meraviglia che riveste la narrazione, consisterebbe in una “corsa verso la morte … nella forma di una fatalità inspiegabile”) che in ultimo si rovescia, con la trasformazione conclusiva di Pinocchio in “ragazzino perbene”, in una personificazione della Rinascita la cui portata va ben oltre l’usuale lettura moralistica e consolatoria.
Questo deposito di senso, che sebbene forse non avvertito in termini espliciti da Raggio rimane nondimeno sotterraneamente operante, riporta una volta ancora ad una problematica profondamente vissuta da Claudio Costa. “Uno dei miracoli che sono stati compiuti non solo da Cristo (…) è la resurrezione del corpo … la morte e la resurrezione” – diceva in un’intervista del 1993. “Il fatto fondamentale è la resurrezione. […] Morire al mondo sensibile per rinascere col ‘Corpo dell’arcobaleno’ … allora tutto dura in un altro tempo e in un altro spazio e il corpo diventa vibrante, così vibrante che quando muore resta questa vibrazione, questo desiderio di essere come un diapason, un diapason che continua a risuonare” (4). Una vibrazione che Raggio ha continuato ad avvertire dopo la scomparsa di Costa come impulso a proseguire il lavoro che li aveva avvicinati: “Claudio non c’è più – diceva – ma io lavoro per lui, e io non morirò perché devo lavorare, lavorare per me e per Claudio …” (5).

Sandro Ricaldone

Note
1) Claudio Costa, Sublimato potabile, Edizioni Massimo Valsecchi, Milano 1981, p. 10. 2) Claudio Costa, Un tempo dell’essere e uno stato dell’esistere, in Davide Mansueto Raggio, Centro d’arte La Maddalena di Nino Bernocco, Genova 1993.
3) Miriam Cristaldi, Il mistero del fare, in Una periferia creativa dell’essere, Opuscola n. 21, Libreria Sileno Editrice, Genova 1990. 4) Claudio Costa, Borderline, un modello fra parentesi, intervista di Sandro Ricaldone, in Ocra – Circolare sui problemi dell’arte, n. 7, Genova, novembre 1983.
5) Dino Menozzi, Davide Raggio, in L’arte naïve, n. 55, Reggio Emilia 1995.