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marzo 2014 - agosto 2014



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RALPH RUMNEY


OPERE 1957-1995
(Galleria Peccolo, Livorno - aprile/maggio 2014)



The biography is not the artist

Il passaggio di Ralph Rumney nella unità di tempo (1934-2002) che ha occupato la sua vita è stato senza dubbio tumultuoso. Doveva esserlo, perché gli fosse possibile sottrarsi alla presa soffocante di un tempo non privo di stimoli, ma sempre più gravato dal peso insopportabile dello spettacolo e del consumo.
Le sue prove di ribellione iniziano nella prima adolescenza, quando va incontro all’ira del padre, un operaio socialista divenuto pastore della Chiesa d’Inghilterra, per aver richiesto in biblioteca i libri, allora ancora proibiti, del Divin Marchese (che, non a caso, segneranno anche l’adolescenza di Debord, come attestano le lettere da questi indirizzate a Henri Falcou). Rifiuta una borsa di studio per l’università di Oxford per frequentare la scuola d’arte di Halifax, che però lo delude, metre una sortita a Londra, al Festival of Britain, nel 1951, gli fa conoscere la scena artistica contemporanea. Più tardi, in Cornovaglia, frequenta Patrick Heron e la scultrice Barbara Hepworth. Introdotto alle teorie marxiane da Edward P. Thompson, lo studioso della formazione della classe operaia inglese, che lo ospita quando decide di abbandonare la casa paterna, entra e viene prontamente espulso dalla Young Communist League, per contrasti con la dirigenza stalinista. Obiettore di coscienza, ha problemi con la giustizia e lascia l’Inghilterra, passando in Francia e in Italia, dove tocca Firenze, Roma, Linosa e Trieste, dove si svolge la sua prima personale. Tornato in patria nel marzo 1955 fonda la rivista “Other Voices”, cui offre un importante contributo l’artista e regista di origine polacca Stefan Themerson. Il manifesto recita “Questo foglio non è un giardino letterario. È una concimaia. Non stiamo cercando la fama, non proviamo a riformare il mondo. (…) Combattiamo contro la mentalità della classe media. Questa è l’eterna guerra dell’artista”.
L’anno successivo è a Milano, dove conosce – fra gli altri – Fontana e Baj, che lo presenta a Jorn. Tiene una mostra alla Galleria Apollinaire di Guido Le Noci insieme a Mario Bionda, insieme al quale (unitamente a Costantino Guenzi) firma nell’occasione il “Manifesto antiestetico”, dove si legge: “Noi siamo contro il gusto e l’antigusto. (…) Un quadro è un oggetto in sé, non è un lusso d’arredamento. Un quadro è ambientativo, non è ambientato. Un quadro è generato da forze che coinvolgono, non è composto di forme che sconvolgono”. Lo stesso anno tiene a Londra la sua prima personale inglese al New Vision Centre appena fondato dal pittore informale Denis Bowen con Halima Nalecz and Frank Avray Wilson. Poco dopo aver incontrato Pegeen Vail Guggenheim, che diverrà sua moglie, all’inaugurazione di una mostra di Bacon alla Hanover Gallery, nell’aprile 1957 con quattordici lavori è l’autore più rappresentato nella grande mostra “Metavisual, Tachiste, Abstract. Painting in England Today” allestita dalla Redfern Gallery.
Frattanto, a Parigi, si è legato a Guy Debord, Michèle Bernstein e Gil J. Wolman, membri dell’Internationale Lettriste. Questi erano all’epoca impegnati nelle problematiche della psicogeografia (lo studio degli effetti specifici dell’ambiente sulle emozioni e sul comportamento degli individui) e dell’Urbanisme Unitaire (la teoria dell’uso combinato di arte e tecnica per la creazione di un habitat a misura d’uomo), un tema che gli era particolarmente congeniale, avendo lui stesso in precedenza contestato, in dibattiti interni all’International Center of Arts di Londra, i progetti di Colin Buchanan per lo sviluppo della rete stradale londinese e i piani di ricostruzione della città basati sul gigantismo brutalista.
È questo incontro a dare una svolta decisiva al suo lavoro e ad aprirne la fase più nota. Rumney si era presentato prima di allora come un originale pittore astratto, il cui procedimento compositivo – come si rileva da “The Change” (1957), un quadro acquistato in seguito dalla Tate Gallery – s’incentrava su un’irregolare trama di segni inframmezzata da brani o impronte di colore. Ma l’interesse per la psicogeografia - riflesso sia nella partecipazione nel febbraio 1957, con Jorn e Yves Klein, alla mostra ad essa intitolata presso la Galerie Taptoë di Bruxelles, sia nella sigla (Comité Psychogéographique de Londres) sotto la quale partecipa nel luglio seguente alla fondazione a Cosio d’Arroscia dell’Internazionale Situazionista - lo spinge a misurarsi su un nuovo terreno e ad intraprendere un’approfondita esplorazione dei sestieri veneziani (resa in forma di fotoromanzo détourné in “The Leaning Tower of Venice”, 1958) il cui ritardato completamento sarà causa della sua subitanea esclusione dal nuovo raggruppamento.
Del pari di matrice situazionista, come annota Eric De Chassey, si palesa la gestazione di “The Place”, l’ambiente allestito da Rumney insieme agli amici artisti Robin Denny e Richard Smith, con il supporto critico di Roger Coleman, all’ICA nel 1959. Fu infatti Rumney “a proporre una mostra ‘ambientale’ a Lawrence Alloway, allora curatore delle esposizioni dell’ICA e interlocutore privilegiato per due generazioni di artisti britannici. I due elaborarono un progetto chiamato “Hiss Chamber”, concepito per studiare il comportamento umano all’interno di un labirinto”, poi abbandonato per i costi proibitivi delle avanzate tecnologie richieste. Anche la successiva proposta di Rumney di caratterizzare la manifestazione in termini di gioco fu accantonata e venne semplicemente realizzato un ambiente con quadri-pannello montati al suolo, secondo uno schema diagonale, con qualche effetto di spaesamento dovuto ai diversi approcci pittorici dei tre artisti. Per l’occasione Rumney realizzò una serie di dipinti in cui campeggiavano su fondo scuro singole sagome geometriche di grande formato, segnando un radicale distacco dalle prove degli anni precedenti, secondo un atteggiamento che Toni del Renzio avrebbe segnalato in seguito come contraddistinto da “una ridotta esigenza di continuità o persino di coerenza formale e stilistica”, dovuta al fatto che l’attenzione dell’autore e lo sviluppo del suo lavoro si concentravano su nuovi processi originati da altri principi. D’altronde già nel testo che accompagnava la mostra del 1956 al New Vision Centre si poteva leggere: “non nutriamo alcun interesse intrinseco per il disegno, il colore, la materia, la superficie o la finitura se non per ciò che hanno di caratteristico del tempo in cui viviamo”.
L’idea del labirinto, che i Situazionisti coltivavano in quello stesso arco di tempo sotto l’impulso di Constant e della Sezione olandese, si mantenne viva in Rumney anche nel periodo successivo. Ne fa fede una lettera indirizzata a Dadamaino nel 1960 da Piero Manzoni (con il quale Rumney aveva esposto, insieme ad altri, alla Galleria Pater di Milano nel 1958): Scrive Manzoni:
In un recentissimo mio viaggio a Parigi ho incontrato il pittore R. Rumney: anch’egli si stava occupando di un progetto estremamente simile al mio: anzi addirittura eguale nella sostanza, tanto che ne cureremo la messa a punto insieme. Lo spettatore entrerà in una specie di labirinto, composto da molte celle più o meno grandi (una 60ina) controllate da un cervello elettronico. Il 'soggetto' è lo spettatore stesso (la sua struttura psichica). Secondo le sue reazioni verrà indirizzato autonomamente piuttosto verso un itinerario che un altro, itinerario che solleciterà in lui differenti sensazioni, secondo la scelta inconscia che egli stesso farà.
Parallelamente a questi nuovi affondi, nei primi anni ’60 Rumney prosegue la sua attività pittorica, piegando l’antica tecnica della applicazione della foglia d’oro e di altri metalli (che già aveva fatto una discreta comparsa nel citato “The Change”), alla realizzazione di motivi geometrizzanti in cui affiorano i modelli della scacchiera e della testa, entrambi destinati a ricorrere, il primo scompigliato negli “Écarts”, il secondo nella sequenza delle “Heads” realizzate fra il 1988 e il 1989.
L’interesse per il fronte avanzato della tecnologia è predominante negli altri progetti della seconda metà dei Sixties: in primis la creazione dell’International Institute for Art and Technology, che avrebbe dovuto trovar sede in una delle isole della laguna veneziana, per il quale l’artista aveva immaginato un complesso meccanismo di finanziamento basato sul conferimento di mille opere di autori diversi e su un azionariato diffuso, con esiti remunerativi per gli investitori. Tra gli obiettivi dell’istituto il perseguimento di una “Interfacial Research in the Art-Sciences Isogenes”, una “collaborazione ludica” che ha un parallelo sull’altra sponda dell’Atlantico negli Experiments in Art and Technology di Billy Klüver e Robert Rauschenberg, grazie a cui gli artisti si sarebbero giovati della possibilità di lavorare con tecniche nuove in ambienti ad esse specificamente destinati e gli scienziati di una “fertilizzazione” inter-disciplinare altrimenti inattingibile.
Sul finire del decennio, drammaticamente segnato dalla scomparsa della moglie (1967) e dalla conseguente inchiesta giudiziaria promossa dalla suocera, Peggy Guggenheim, che lo spinge a cercare saltuario rifugio nella clinica alternativa di Felix Guattari, si apre un periodo di stasi, durante il quale – per sopperire alle necessità materiali, Rumney collabora a diverse iniziative editoriali, lavora alla radio francese e si dedica all’insegnamento presso le Scuole d’arte di Canterbury e di Winchester. In questo arco di tempo Rumney incontra, dopo un lungo intervallo, Michèle Bernstein, ormai divorziata da Debord. I due si sposano nel 1973 e rimarranno legati per diversi anni.
L’attività espositiva, sostanzialmente interrotta dopo la personale del 1961 al Traghetto di Venezia, riprende nel settembre 1985 con la mostra alla Transmission Gallery di Glasgow (“The Map is not the Territory”) con le polaroid di corpi anonimi e i rilievi anatomici riuniti nel ciclo delle “Choses”. “Non l’avevamo visto per molto tempo”, annota Guattari nel catalogo. “Doveva aver infranto la barriera del suono o almeno quello specchio che riflette la presenza di una persona verso i suoi amici. E ora ricompare; il click di una polaroid, come per magia, l’ha risvegliato. C’è un ritmo nei suoi calchi sconcertanti, nelle sue composizioni: in questi profili di seni e di inforcature inguinali con le loro armonie quasi classiche, nella desolazione di questi volti che guardano di traverso fuori dai riquadri oppressivi che li imprigionano …”.
Altre mostre seguono alla England & Co. nel 1989 (“Constats”) e nel 1993 (“Works 1953-1993”). Ma gli ultimi anni, al di là del nuovo ciclo pittorico delle “Silhouettes”, profili appiattiti di corpi femminili raffigurati a braccia e gambe divaricate, si snodano sotto il segno di manifestazioni ludiche (la “Mairie à outrance”, creata nel 1992 con Jean-Pierre Eyraud, istituzione deputata a promuovere una inedita politica degli affetti) e a iniziative di tono memoriale. Nel 2000 l’artista convoca a Manosque, la città dell’alta Provenza resa celebre dai romanzi di Jean Giono dove si era ritirato, un incontro psicogeografico sul tema della “miseria in ambiente urbano di provincia, considerata nei suoi aspetti culturali, economici e sessuali”. Nel 2001 esce per i tipi della Manchester University Press il volume “The Map is not the Territory”, miscellanea di documenti e conversazioni curato da Alan Woods, preceduto nel 1999 dall’autobiografia in forma di intervista pubblicata da Gérard Berreby nelle edizioni Allia. Quest’ultimo reca in esergo una frase tratta dal “Livre de Monelle” di Marcel Schwob, emblematica della linea di condotta proiettata verso nuove intraprese che Ralph Rumney ha costantemente osservato lungo il suo intero percorso: “Fuis les ruines et ne pleure pas parmi”.