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settembre 2014 - ottobre 2015



Mostre e Recensioni



-  Lo spazio altro
    del libro d'artista


-  Stefano Grondona
    L'eccentrica visione


-  Claudio Costa e i musei

-  Ger Lataster
    alla Galleria Peccolo


-  Domenica Laurenzana:
    Tra il segno evidente
    e il segno nascosto


-  Omaggio a Cervantes

-  Adriano Accattino:
    dalla non pittura
    all'iperppittura


-  Outsiders: tre artisti
    fuori dagli schemi


-  Giuliano Galletta:
    il corpo come reperto


-  Angelo Gualco performer

-  Palma Severi - Mirella Tarditi:
    Sconfinamenti


-  Roberto Perotti:
    Beyond: Desire for the Infinite


-   Il Registratore Nucleare

-  Piero Simondo
    situazionista controcorrente


-  Beppe Dellepiane:
    "Carta santa"


-  Beppe Dellepiane:
    Pagine da "Carta santa"
    e altri lavori


-   Enrico Morovich:
    le stranezze del Ragioniere


-   Atelier San Marcellino
    Creatività e partecipazione


-   Giuliano Galletta
    Roman reussi e altre carte




 

SIMONDO SITUAZIONISTA CONTROCORRENTE


(Biblioteca Civica Leonardo Lagorio, Imperia, 8-23 maggio 2015)

Contro l’Accademia, contro l’estetica, contro le mitologie dell’artista, contro l’avanguardia, contro il mercato: lungo tutto il suo percorso, esistenziale e pittorico, Piero Simondo si è mosso “in direzione ostinata e contraria” (come recita il titolo della raccolta postuma di un altro ligure ribelle) senza lasciarsi distogliere dalle proprie convinzioni dalle opportunità, davvero singolarmente propizie, che - specie nelle prime fasi del suo operare - si è trovato dinanzi.
Studente all’Accademia Albertina di Torino tra il 1948 e il 1950, nella classe di Felice Casorati, abbandona i corsi perché vi “si insegnava (?) una pittura come se fosse ‘la Pittura’, come se questa attività non avesse alcuno spessore teorico”. “Io rivendicavo – ricorda - il diritto di pensare la pittura. Mi rendevo conto che, in assenza di una o più ipotesi teoriche, non avrebbero potuto esserci mutamenti significativi”.
La piattaforma che viene elaborando, anche sulla scorta della formazione scientifica mutuata dai corsi di chimica che contemporaneamente segue all’Università, assume sin da allora un’intonazione antiestetica. In polemica con le tesi crociane, all’epoca dominanti, secondo cui l’arte sarebbe “vera sintesi a priori estetica, di sentimento e immagine nell’intuizione”, non meno che con la concezione gentiliana che definisce l’arte come “atto puro e sintesi a priori”, Simondo si orienta verso un’idea dell’arte come esperienza e come processo, un’arte che si crea (per parafrasare il pensiero Dewey a proposito della logica) “attraverso il lavoro d’indagine” e il cui metodo comporta “il controllo dell’indagine in vista dell’attendibilità dei risultati raggiunti”.
Ed è questo, appunto, il metodo che sperimenta, ad Alba, nel Laboratorio del Bauhaus Immaginista creato nel settembre 1955, con Asger Jorn e Pinot Gallizio. “Si tratta – annota l’anno successivo in Eristica - di uno schema mentale, di uno strumento figurativo linguistico, che permette di definire la direzione e lo scopo di un'operazione e nello stesso tempo, di controllare le fasi successive di produzione fino all'evento finale, l'opera compiuta - come risultato provvisorio di un impianto produttivo sperimentale. L'impostazione del lavoro produttivo figurativo si definisce precisamente in questa direzione costruttiva strutturale e nello stesso tempo si elaborano gli strumenti provvisori di controllo”. In concreto è l’impiego della tecnica del monotipo che meglio di ogni altra gli consente “di controllare e schematizzare modi di esecuzione il più largamente possibile intesi”, in una concatenazione che fa dell’opera realizzata la base per la sperimentazione della successiva, e di quest’ultima lo strumento di verifica dell’esito della precedente.
Altra caratteristica del monotipo - che si riscontrerà anche nella maggior parte delle tecniche utilizzate od elaborate in seguito, come la decalcomania, l’ipopittura, il nitroraschiato – è quella di stabilire una distanza fra la manualità del pittore e il risultato visivo, e di pervenire ad un’“immagine imprevista”, che mina, o almeno revoca in dubbio, l’idea romantica dell’ispirazione e il concetto stesso di autorialità.
Anche all’interno dell’Internazionale Situazionista, nata dalla fusione del Bauhaus Immaginista e dell’Internationale lettriste nella sua casa di Cosio d’Arroscia nel luglio 1957, la sua posizione si mantiene indipendente, ricusando di allinearsi alle tesi debordiane: “Lo scontro – ricorda in un’intervista - si creava perché l'idea di rivoluzione era assunta in termini che comportavano il superamento o addirittura la negazione di qualsiasi cosa, prima ancora che venisse realizzata. Gli artisti si trovarono quindi sbilanciati, perché tutto ciò che appariva sotto la categoria dell'arte ricadeva nella contraddizione che bisognava eliminare. Su queste cose infatti, per quel che mi riguardava, mi dissociai, dato che non intravedevo nessuna prospettiva ma solo l'antica contraddizione per cui da un lato il principio rivoluzionario si trasformava in un palcoscenico per quelle cose che in teoria si sarebbero volute negare e su cui ognuno aveva costruito le proprie avventure, compreso lo stesso Debord. Quindi io nel 1958 ero fuori”.
L’ipotesi simondiana scartava infatti sia il superamento dell’arte proclamato da Debord sia la sua pratica professionale ed elitaria, approssimandosi all’annotazione di Marx secondo la quale “in una società comunista non esistono pittori, ma tutt’al più uomini che, tra l’altro, dipingono”. Già concepita all’epoca del Laboratorio, l’idea che ciascuno potesse “farsi la propria arte” trova un nuovo e concreto sviluppo operativo con la creazione, nel 1962, a Torino, del C.I.R.A. (Centro Cooperativo per un Istituto Internazionale di Ricerche Artistiche), un gruppo di intellettuali e operai FIAT, nel cui ambito si voleva attuare concretamente “la convinzione profonda della fine professionale della pittura, da intendersi non secondo il cauto cliché della morte dell'arte ma secondo il presentimento di una radicale trasformazione del problema”.
Esaurita, dopo un quinquennio, questa esperienza, costellata di progetti collettivi, Simondo prosegue le sue ricerche pittoriche dando vita ai cicli dei Quadri-Manifesto - composizioni di immagini di rotocalco applicate con la trielina, su temi estesi dal consumo di massa alla guerra nel Vietnam -; delle Ipopitture, lavori in cui l’immagine viene fatta affiorare dal retro della tela; dei Nitroraschiati, ove applica una tecnica gestuale “a levare”, una sorta di cancellazione incompiuta dell’iniziale stesura di vernici industriali. Non desiste però dalla sua pedagogia eretica, organizzando e gestendo i Laboratori artistici della Facoltà di Magistero, dove fra l’altro esplora pionieristicamente, nei primi anni ’80, le opportunità offerte dalle nuove tecnologie digitali.
Varcati i settant’anni, Simondo ritorna a coltivare il monotipo, realizzando opere di inusitata freschezza, in cui – una volta di più – riesce ad attivare la materia nella produzione di immagini impensate. E riprende le antiche polemiche, con un pungente contrappunto al Rapport sur la construction des situations, pietra miliare della riflessione debordiana sull’avanguardia, nel segno di una combattività che non accenna a scemare. Invera, così, ancor oggi, il ritratto che Francesco De Bartolomeis, capofila della pedagogia attivistica in Italia e studioso d’arte, tracciava di lui giovane, agli inizi degli anni ’60: “A proposito di Simondo dirò incidentalmente che egli ha conservato intatta la sua spregiudicatezza di sperimentatore: più scettico di lui non si potrebbe essere, parla della fine dell’arte, fa a pezzi ogni estetica, ma lavora, lavora con una ingenuità” - termine che va qui inteso nel senso antico di schiettezza, così come l’ingenuus era per i Romani l’uomo libero – “di fronte a cui cadono tutte le obiezioni sue e degli altri”.

Sandro Ricaldone