PALMA SEVERI - MIRELLA TARDITI
Sconfinamenti
(Galleria Il Punto, Genova, 7 - 14 marzo 2015)
Dipingere la sensazione, muovendo non da un’idea ma da un colore, da un impulso emotivo. Interrogare il quadro: cercare nella trama delle forme l’affiorare di un’immagine, dipanarne un racconto, evocarne con la parola i significati possibili. È nel dialogo tra una visione che viene alla luce non premeditata, costruita segno dopo segno, e una deriva poetica spinta a ripercorrerla nella scrittura, verso dopo verso, che prende vita - in un mutuo chiarimento, in un vicendevole fraintendimento – la ricerca congiunta di Michela Tarditi e Palma Severi.
Sappiamo, da Michel Foucault, che il rapporto fra pittura e linguaggio è un rapporto infinito. “Non che la parola sia imperfetta – ha scritto – e, di fronte al visibile, in una carenza che si sforzerebbe invano di colmare. Sono irriducibili l’una all’altro. Vanamente si cercherà di dire ciò che si vede, altrettanto vanamente si tenterà di far vedere, a mezzo di immagini, ciò che si va dicendo”. Proprio l’irriducibilità reciproca di discorso e figura, tuttavia, costituisce tra loro uno spazio dove coesistono e talvolta arrivano a sfiorarsi; dove l’autosufficienza di ambedue si anima di un movimento probabilmente effimero, d’un accostarsi precario ma vitale, che li muta da oggetti di contemplazione in esperienze, aprendoli ad una intelleggibilità complessa e più ricca.
A nutrire la vicinanza delle due espressioni sembra essere, nel caso di MiTì e di Palma, una comune tensione verso il primigenio e l’archetipo: l’albero della vita, il caos del vortice, l’orizzonte che divide e congiunge acqua ed aria, il volto, specchio dell’anima.
Così un’informe macchia bruna, circondata da larghe scie opache e di filamenti accesi, irradiati verso l’alto (“Attesa”, 20??), viene letta come volto senza contorni / occhi senza visione / umanità in attesa / di riconoscimento. Così ne “L’albero magico” (20??), il delinearsi nell’ampia chioma, prossima nel tono cromatico ad un vello animale, d’un volto femminile, emblema di un’umanità legata all’ambiente, è restituito in una scansione essenziale: chioma d’albero / chioma di donna / dialogo di uno scoiattolo / con la natura. Così ancora il grande incavo rosseggiante solcato da uno sciame di frammenti cristallini (“Ascolto”, 20??), immenso orecchio color porpora / che cattura le voci del mondo, viene percepito come una sorta di buco nero, capace di risucchiare irresistibilmente chi l’osserva oltre il confine della vita.
Una simile vena simbolica attraversa anche gli scenari urbani di “Metropolis” (20??) e di “Caruggi” (20??): nelle fitte trame screziate d’arancio e di viola del primo dipinto e nei riquadri contornati di grigio del secondo si fissano i contorni di città senza futuro, dove però umori voci lingue sconosciute / sgretolano muri di isolamento.
Tra i due poli - dell’immagine impulsiva e della sobria, ma temprata, cornice poetica - che si confrontano in questa mostra, secondo un’operatività già a lungo collaudata, si apre un territorio disseminato di tracce che le autrici stesse hanno designato, nel titolo di un’altra loro rassegna, come “memorie dell’anima”. Memorie dischiuse “con alterna chiave”: la pittura del taciuto, la parola “assediata da colori” (Celan).
Sandro Ricaldone